1° Classificato alla I edizione del Torneo Mensile - "Regno delle Storie" di Nuova Solaria Forum
21 Luglio
1969
«Sto scendendo dal LEM ora.» La voce di Armstrong,
leggermente modificata dalle interferenze e dal microfono, riempì la sala. Tutti,
in assoluto silenzio, guardavano a bocca aperta lo schermo sul quale scorrevano
le immagini trasmesse dalla telecamera sul casco dell’astronauta.
«Un piccolo passo per l’uomo, un grande passo per
l’umanità.» La frase fu seguita da un’ovazione generale, la gioia nella sala
controllo della NASA era incontenibile, c’era chi si abbracciava, chi brindava
col caffè e qualcuno, perfino, aprì una bottiglia di champagne, facendo un gran
botto.
“Incredibile, siamo arrivati sulla Luna.” Pensò
Miller.
«Quindi te ne andrai adesso…» disse Margaret.
«Non qui, non è il momento né il luogo, comportati
normalmente. È un momento di festa…» le disse sforzandosi di sorridere.
“Non avrei mai dovuto coinvolgerla dell’operazione
dell’MI-1947 …”
«Come faccio a…» replicò lei.
«Maggiore Miller, devi seguirmi» li interruppe un
uomo alto, in completo nero.
John diede un veloce bacio sulla guancia a
Margaret. L’espressione della donna però non mutò, rimase quella fredda e
austera di sempre, ma John sapeva che sotto quella faccia da dura e quel
cespuglio di capelli neri c’era un cuore caldo. Molto caldo.
«Torno subito» le disse, poi si rivolse all’uomo:
«Andiamo.»
“È giunta l’ora.”
«Il successo della missione Apollo 11 ci permette
di far avanzare finalmente il nostro progetto» gli disse l’uomo mentre salivano
sull’ascensore, inserì la chiavetta nella pulsantiera e iniziarono a scendere,
diretti verso i piani segreti.
«Avete risolto il problema del carburante?»
«Stiamo andando dal dottor Dallen, le spiegherà
tutto lui.»
Dopo qualche minuto l’ascensore si fermò, Miller e
l’uomo in completo uscirono, percorsero il buio corridoio in silenzio, fino a
svoltare a destra al secondo incrocio e poi entrare in una stanza sulla
sinistra.
L’ambiente era piccolo, sembrava un piccolo
ufficio dell’impiegato di medio livello di qualche azienda: sulla scrivania in
centro alla stanza erano sparpagliati fogli con appunti e calcoli mentre, alla
lavagna in fondo, un ometto piccolo e dai capelli bianchi stava facendo calcoli
di fisica e balistica. Quando li sentì entrare si voltò, e i suoi occhi si
illuminarono.
«Ci siamo maggiore Miller, ci siamo!» esclamò
saltellando.
John prese una sedia e si sedette.
«Dimmi tutto, professore, quando devo partire?»
«La convergenza con Alfa Centauri sarà questo
Novembre. Il presidente Nixon ha dato il suo consenso per una missione Apollo
12, la missione lunare servirà sia come copertura che come mezzo per
risparmiare il carburante. Ho fatto dei calcoli e…» il professore rovistò fra
tutti gli appunti sparsi sulla scrivania. «Ma dove l’ho messo? Ah sì, eccolo!»
Prese un foglio e lo diede a John, che lo studiò. Vi erano disegnate
traiettorie circolari con annessi calcoli matematici.
«Professore, da quello che ho capito dai tuoi
calcoli intendi agganciare il mio modulo all’Apollo e poi farmi sganciare
vicino alla Luna…»
«Esatto, sfrutteremo la gravità della Luna per
mandarti verso Alfa Centauri risparmiando carburante, in questo senso è
importante per il pilota dell’Apollo sganciarti esattamente in questo punto»
piantò il gesso contro la lavagna. «In questo modo la spinta gravitazionale ci
consentirà di risparmiare il cinquanta per cento del carburante, praticamente
fino a questo punto la navicella avrà ancora il serbatoio pieno.»
«E invece con l’ibernazione?»
«Oh, abbiamo fatto grandi passi avanti! Ora si
risveglia con successo un volontario su quattro.»
«Oh è molto confortante…»
«Per novembre sarà tutto a posto» affermò il
professore.
«Lo spero.»
«Il viaggio durerà circa dieci anni, il computer
di volo sarà costantemente controllato dalla sala centrale mentre tu sarai nel
criosonno; il pianeta da cui abbiamo rintracciato la traccia magnetica è Alfa
Centauri Bb; è più vicino ad una delle due stelle di quanto volessimo, ma la tuta
che stiamo sviluppando ti dovrebbe proteggere.»
“Il dovrebbe
proteggere è ancora più confortante…”
«Cerca di passare sulla superficie solo il tempo
necessario per raccogliere i minerali, atterrerai già vicino ad un punto dove
vi è un’alta concentrazione perciò non avrai problemi.»
«Ho capito, c’è altro che devo sapere?»
«Questo minerale, è molto radioattivo…» disse con
tono cupo. «Non posso garantirti che tornerai illeso da questa missione.»
«Conoscevo i rischi quando ho accettato.»
«Il minerale è troppo importante, con i pochi
grammi che ci sono arrivati con l’UFO Roswell nel ’47 siamo riusciti a
costruire bombe potenti cento volte Hiroshima… purtroppo però non ci è rimasta
abbastanza quantità di minerale per iniziare una produzione su larga scala, ma
se tu avessi successo… con un simile arsenale bellico l’Unione Sovietica
sarebbe costretta ad ammettere la nostra supremazia. Porrai fine alla Guerra
Fredda.»
John si alzò.
«Stai tranquillo, professore, lasciatemi uno
spazio sui libri di storia accanto al nome di Armstrong.»
14 Novembre
1969
«Maggiore Miller, sei pronto?» La voce dell’operatore
radio gli esplose in testa attraverso l’auricolare.
Miller se lo tolse di scatto.
«Come si abbassa il volume di questo coso?» disse,
avvicinandosi con cautela la piccola cuffia all’orecchio.
«Il volume non è regolabile, signore»
«Sono alla NASA e non sanno regolare il volume…»
disse fra sé e sé.
Miller controllò di essere ben agganciato al
sedile, strinse le cinture.
“Giusto per scrupolo.”
«Accensione motori.» La voce del comandante Conrad,
nel modulo allunaggio, gracchiò nella cuffia.
Le pareti del razzo iniziarono a tremare mentre i
potenti motori propulsori venivano accesi.
Sopra alla plancia dei comandi dinnanzi a lui
iniziò a lampeggiare una spia rossa.
«Si parte, buon viaggio, ragazzi» disse l’operatore
nel centro di controllo. «Via al conto alla rovescia.»
«Dieci… nove… otto… sette… sei…» La voce femminile
dell’altoparlante scandiva i suoi ultimi istanti sulla terra. La vibrazione dei
motori crebbe fino a fondersi col battito cardiaco.
«Tre… due… uno…»
Il cuore gli balzò in gola, le orecchie gli si
tapparono e un principio di vomito gli risalì l’esofago mentre il razzo si
alzava in volo.
Miller strinse i pugni e ricacciò giù la bile, il
sapore acidognolo gli riempì la bocca.
“Speriamo che finisca presto.” Ripensò a Margaret,
gli aveva promesso che l’avrebbe aspettato, che avrebbe dato anima e corpo
nella missione, sarebbe stata anche lei al suo fianco. John ci volle credere, sapere
che lei lo pensava e pregava per lui gli dava forza per ciò che avrebbe dovuto
affrontare.
I minuti passarono, lenti come ore, quando
finalmente la nave smise di tremare: avevano oltrepassato la stratosfera.
Miller si tolse le cinture e si mise alla plancia
di comando.
«Qui Columb 1 a Comando Operativo, mi ricevete?»
«Forte e chiaro, Columb 1… Apollo 12 è tutto in
ordine?»
«Tutto perfetto, tra tre giorni saremo abbastanza
vicini alla luna per sganciare Columb 1 verso la sua direzione»
«Bene ragazzi, ora è tutto nelle vostre mani.»
17 Novembre
1969
«Miller ti devi sganciare fra due ore, sei pronto?
Miller?»
Fu riportato alla realtà dalla voce del
comandante.
Riaprì a fatica gli occhi.
«Sì...» si schiarì la voce. «Sono qui»
«Forza, Miller! Ho bisogno di sapere se il tuo modulo
è pronto per lo sgancio!»
«Controllo subito.»
Volteggiò verso la plancia di comando. Ricacciò
giù il rigurgito che gli venne a causa dello scatto improvviso.
"Non sono ancora abituato a questa gravità
zero, le simulazioni non erano niente in confronto..."
Arrivò davanti alla plancia, si assicurò al sedile
con le cinture e iniziò il controllo dei sistemi di volo e del pilota
automatico.
«Ho un ricevitore danneggiato, attivo quello di
riserva.»
«Bene, Columb 1, diamo il via alla procedura di
sgancio.»
Miller tirò la leva per avviare il processo di
sgancio del modulo.
«Procedura iniziata, accendo i motori.»
Attivò i comandi manuali e afferrò saldamente la
cloche.
«Apollo 12, sono in traiettoria per sfruttare la
gravità della Luna, è tutto pronto per lo sgancio definitivo.»
«Ottimo, Columb 1, buona fortuna.»
«Grazie, comandante.»
Miller abbassò la leva dello stacco dell’ultimo
gancio e la lastra di metallo che proteggeva il vetro della cabina di
pilotaggio si ritirò verso l’alto.
L’intero universo si mostrò ai suoi occhi: da quel
punto riusciva a vedere Marte, Giove e perfino una piccola parte di sole. Era
uno spettacolo incredibile, pochissimi uomini avevano avuto il privilegio di
assistervi.
“Ho davanti a me l’immensità del creato.”
La navicella improvvisamente fu investita da una
forte turbolenza che per poco non gli fece sbattere la testa contro la plancia.
«Columb 1, lo sgancio automatico dell’ala destra
non ha funzionato correttamente, devi sganciarla manualmente.»
«Cazzo!» inserì il pilota automatico e si slegò
dal sedile, fluttuò, sballottato dalle continue turbolenze che lo facevano
sbattere contro le pareti.
“Porco cazzo!”
Digrignò i denti e, a fatica, tenendosi ben
stretto ad ogni appiglio che riuscì a trovare, arrivò nel modulo di
comunicazione, vicino all’ala destra.
«CCO, sono nel modulo di comunicazione, procedo
allo sgancio manuale dell’ala.»
Tirò la leva, ma quest’ultima si mosse solo di
qualche centimetro.
«Cazzo! È bloccata!» tirò un pugno alla parete.
«Miller, devi espellere il modulo di
comunicazione! Userai i sistemi ausiliari per il resto del viaggio.»
«Porca puttana!»
Miller uscì dal modulo di comunicazione, guardò
sulla destra, in cerca del pannello d’emergenza.
“Era qui… oh, finalmente, eccolo!”
Prese il martelletto per le emergenze e ruppe il
vetro di protezione del pulsante per l’espulsione antincendio. In un attimo le
porte stagne sigillarono il modulo, un forte boato come di un’esplosione, uno
strattone, e la navicella si stabilizzò. “Ce l’ho fatta!”
«Columb 1, i sistemi di bilanciamento si sono
attivati, ti sei sganciato appena in tempo per sfruttare la spinta della Luna;
la traiettoria fortunatamente non ne ha risentito; ma il modulo d’atterraggio
automatico potrebbe darti problemi; per sicurezza, dovrai eseguire le manovre
di avvicinamento al pianeta Bb manualmente.»
Miller si lasciò galleggiare, aspettando che
l’adrenalina abbandonasse il suo corpo, fece due profondi respiri, era senza
fiato.
«Ricevuto, CCO, non è un problema.»
«Stai molto attento, Columb 1, una volta che sarai
fuori dal sistema solare non potremo più comunicare via radio, ti terremo
aggiornato attraverso messaggi di testo al computer di bordo.»
«Ricevuto.»
Miller andò nella cabina di pilotaggio e scese la
scaletta che lo avrebbe portato nel modulo del criosonno.
“Ci siamo.”
La stanza era vuota, salvo per un armadietto e una
capsula per l’ibernazione in un angolo, era simile ad un grosso tubo grigio
scuro.
Aprì l’armadietto, si tolse la tuta e gli
scarponi, li piegò velocemente e li mise dentro. Chiuse gli occhi, inspirò
profondamente, espirò.
«Entro nel criosonno, ci sentiamo fra dieci anni,
CCO»
«Sogni d’oro, Columb 1, quando ti svegli guarda il
computer.»
Tolse infine la cuffia e la chiuse nell’armadietto
insieme al resto dell’equipaggiamento.
Si avvicinò alla capsula e premette il pulsante
verde, un getto di vapore gelido si levò dall’apertura.
Miller fu scosso da un brivido di freddo lungo la
schiena. “Sono arrivato fin qui, posso andare oltre.”
Entrò nella capsula e si sdraiò. Indossò la maschera
per l’ossigeno e la capsula si chiuse automaticamente.
Stare dentro quella capsula era come andare in
cima all’Everest in mutande, i brividi si fecero più intensi. Chiuse gli occhi.
Piano piano, la sua mente si ottenebrò. I suoi
pensieri si disciolsero lasciando spazio al vuoto, sprofondò in un sonno
totale, privo di immagini e suoni.
DATA IGNOTA
«Si sta svegliando, create l’ambiente atteso, la
lingua è giusta?»
La sua coscienza riemerse dal buio e dal torpore,
cercò di aprire gli occhi, ma erano incollati.
Sentì alcuni suoni, delle voci, ma non riuscì a
capirle.
Non sentiva il suo corpo, provò a muovere le
gambe, senza successo.
«Acqua…» biascicò.
Qualcuno gli accostò un bicchiere alla bocca e
Miller bevve avidamente, dopo ogni sorso sentiva le forze ritornargli,
finalmente riuscì a muovere le dita. Strinse il pugno e lo aprì, sentendo la
sensibilità ritornargli nella mano. Poco dopo poté pulirsi gli occhi. Li aprì.
Si trovava in una stanza d’ospedale illuminata dai
raggi del sole che provenivano dalla grande finestra alla sua destra,
purtroppo, dalla sua posizione, l’unica cosa che riusciva a scorgere del
paesaggio era il cielo rossastro.
“Sono sulla Terra?”
In piedi, a poca distanza dal suo letto, gli
sorridevano un medico e due infermiere.
«Ti sei risvegliato finalmente» disse il dottore.
«Io… io…» tossì, il dottore si avvicinò e gli mise
una mano sulla fronte. «Dove mi trovo?»
«Al sicuro.»
“Cos’è questa sensazione? Come se avessi qualcosa
in…”
Tremante, John fece scivolare le mani sulla
propria testa: era stato rasato e gli avevano impiantato dei tubicini, ne toccò
una decina, poi, preso dal panico, ne strappò via una manciata, le infermiere
si precipitarono a bloccargli le mani al lettino con dei lacci.
«No, no, no, no» disse il medico, rimettendo i
tubicini al loro posto. Miller sentì una puntura ogni volta che il dottore ne
impiantava uno nella sua testa. «Quelle sonde ci servono per monitorare le tue
attività cerebrali, vogliamo che sia tutto in ordine.»
«Sono sulla Terra?» chiese Miller.
«Prima tu rispondi alle nostre domande, e poi noi
risponderemo alle tue. Chi sei? Da dove vieni?»
«Non posso dirlo.»
“Cosa cazzo è successo alla mia navicella?”
Il dottore fece una smorfia di rabbia.
«Sei piombato qui dal cielo e per poco non
uccidevi una decina di bambini della colonia che stavano giocando.»
«Colonia?»
«La tua navicella si è schiantata sei mesi fa, ti
abbiamo trovato congelato in una capsula e ti abbiamo portato qui e curato.
Dirci chi sei mi sembra il minimo.»
“Dannazione, non ho storie di copertura.”
«Sono un astronauta, mi chiamo Miller. Ero stato
mandato a costruire una prima installazione umana sulla Luna.»
Dire che hai mancato il tuo obiettivo di parecchio.»
«Che pianeta è questo?»
«Marte.»
«No… impossibile, come abbiamo fatto ad arrivare
su Marte?»
“Che cazzo ci fanno degli uomini qui?”
Il dottore si schiarì la voce.
«Quello che sto per dirti potrebbe… sconvolgerti»
si girò a guardare le infermiere, come per cercare aiuto.
«Hai vagato nello spazio per oltre quarant’anni.»
«Non ci credo…»
“Sono tutte cazzate, la NASA… devo parlare con
qualcuno della NASA.”
«In che anno siamo?»
«Duemilaventisei.»
«Sono cazzate!»
Con la forza dell’adrenalina riuscì a rompere i
legacci che gli bloccavano le mani e iniziò a ristrapparsi le sonde dalla
testa.
«È impossibile!» urlò.
Le infermiere gli presero i polsi e fecero una
forte pressione, erano troppo forti per essere delle donne qualsiasi, ben
presto le forze lo abbandonarono. Si divincolò, ma era troppo debole.
«Lasciatemi uscire!»
«Presto, sedatelo!» disse il dottore.
Un’infermiera tirò fuori una grossa siringa dal
contenuto verdastro e glielo impiantò nella coscia.
Miller urlò di dolore ma ben presto ogni
sensazione passò, ottenebrata dal liquido, la sua coscienza tornò giù, in
profondità.
GIORNO E
MESE IGNOTI, 2026
«Signor Miller, spero che questa volta la
conversazione possa essere più… produttiva.»
Miller si svegliò di colpo, gli occhi vagarono per
la stanza completamente buia, non riuscì a scorgere nessuno nell’ombra.
“Che cazzo… ho sognato tutto?”
«Sono qua, signor Miller.» In un angolo della
stanza un’ombra si mosse.
Miller cercò di alzarsi, ma aveva dei blocchi
d’acciaio ai polsi e alle caviglie.
«Una piccola precauzione…»
Miller digrignò i denti.
«Temo che tu non ti sia presentato, dottore…»
«Il mio nome è Tucramix.»
«Mi pigli per il culo? Che razza di nome sarebbe?»
«Qui sulla colonia i nomi sono diventati, come
dire… esotici» il dottore si avvicinò, la sua sagoma divenne più definita. «Mi
dispiace ma se non mi dai le informazioni che voglio sarò costretto ad usare
metodi meno civili.»
«Cosa cazzo vuoi sapere?»
“La missione deve restare segreta, almeno finché
non potrò parlare con qualcuno della NASA, per quanto ne so, potrei essere in
mano nemica.”
«Abbiamo analizzato il tuo computer di bordo, ma i
dati che abbiamo scoperto sono solo coordinate e qualche avviso di
malfunzionamento della capsula criogenica. Ho pensato che col tuo cervello
avremmo avuto più fortuna, ma si è rivelato più… complesso del previsto.» il
dottore si sedette sul suo lettino e accese il monitor dietro di esso, quello a
cui si collegavano i tubicini.
“A cosa servono questi tubi? Possono davvero
leggermi nella mente?” iniziò a sudare freddo.
«Purtroppo gli impulsi del tuo cervello non sono
facili da codificare, abbiamo ricavato solo informazioni banali, noi vogliamo
sapere perché sei qui.»
«Voi chi?»
«NIENTE DOMANDE!»
«Non posso rispondere fin quando non parlerò col
capo della NASA.»
Il dottore rimase in silenzio.
«Ci parlerai. Rispondi solo a qualche domanda
ancora, da che pianeta vieni?»
«Terra.»
«Terra… del sistema… Solare?»
«Quante altre terre ci sono?»
«Perdonami, con tutti questi pianeti ormai non mi
raccapezzo più» il dottore si esibì in un sorriso forzato.
«Mi sembra tutto molto strano, dottore...»
Tucramix mugugnò.
«Il pianeta da cui vieni, in che condizioni
ambientali è? La vita prospera?»
«Cosa cazzo ne so, sono rimasto congelato per
quarant’anni! Può essere cambiato tutto, ma non potete contattare la NASA?»
«Vogliamo sapere se dici la verità.»
«È molto bello, visto dallo spazio poi è un vero
spettacolo, la vita prosperava.»
«Ci vorresti tornare?»
«Probabilmente tutti quelli che conosco sono
morti… ma sì, ci voglio tornare.»
«Molto bene, andiamo a parlare con la NASA,
promettimi però che non farai casini una volta che ti avrò tolto questi
legacci.»
Miller annuì.
«Bene, andiamo.»
Il dottore inserì una chiave nel monitor e i due
bracciali d’acciaio si aprirono, lasciando Miller libero. Si massaggiò i polsi,
sentiva le mani formicolare.
«Aspetta ad alzarti, devo toglierti il catetere,
farà un po’ male.»
Miller strinse i denti mentre il medico estraeva
il tubicino dalla sua uretra.
«Stai attento a metterti in piedi.» Lo avvertì
Tucramix.
Miller si mise seduto sul bordo del letto, avere
il suolo sotto i piedi gli faceva un effetto strano, gli sembrava quasi di
essersi dimenticato come si faceva a camminare.
“Andiamo, hai fatto un viaggio nello spazio di
quarant’anni, cosa ci vuole a fare qualche passo?”
Si alzò in piedi, riuscì a stare eretto solo per
qualche secondo, poi ebbe un capogiro; Tucramix lo sostenne.
«Forza, ti do una mano io.»
«Grazie» disse a denti stretti Miller.
Il dottore lo accompagnò fuori dalla stanza tenendolo
dalla spalla, il corridoio dell’ospedale era illuminato da una strana luce blu,
disposta a metà parete lungo entrambi i muri.
«Mi dispiace per i blocchi ai polsi e tutto
quanto, ma dovevamo essere certi. La Columb 1 era stata data per persa decenni
fa.»
«Come abbiamo fatto a colonizzare un pianeta in
così poco tempo?»
«Ti stupiresti di vedere cosa siamo in grado di
fare» sorrise Tucramix. «Forza, svolta qua… perfetto, apri la porta per favore,
grazie, sulla destra, c’è un interruttore. Siediti lì vicino al tavolo, ti vado
a prendere un ricetrasmettitore audio.»
Miller obbedì. Anche quella stanza era illuminata
dalla luce azzurrina.
“Che posto strano, non sembra un centro di
comunicazione.”
«Tucramix, avete della biancheria della mia
taglia? Questo camice inizia a darmi fastidio.»
«Ma dov’è che l’ho messo? Ah sì, eccolo qui… sì,
dopo andiamo a prenderti qualcosa che ti vada.»
Il dottore prese qualcosa dallo scaffale dietro di
lui e gli si sedette accanto.
«Ecco, indossa questo auricolare» gli porse una
cuffia piccola e nera e gli fece segno di metterlo nell’orecchio, era molto
fredda.
“Quanto è avanzata la tecnologia mentre dormivo?”
«Tra poco dovrebbe arrivarti il segnale.»
La cuffietta gracchiò, il suono era decisamente
disturbato.
«Non si può regolare questo coso?»
«Abbi pazienza.»
Miller sentì una voce amica.
«Miller? Mi senti?»
«Dottor Dallen? Ma come fai a essere ancora vivo?»
«La medicina ha fatto notevoli progressi mentre tu
dormivi! Ti davamo per morto!»
«Dottore, non sai che piacere risentirti!» I suoi
occhi iniziarono a bruciare e le lacrime gli rigarono il volto. «Margaret! È
viva? Come sta?»
«Anche lei sta bene, Miller, non preoccuparti, è
solo un po’ invecchiata, forse.»
«Può passarmela?»
«Non è qui al momento, vedrò di farle sapere che
sei vivo, anche se… si è rifatta una vita»
Miller ebbe un colpo al cuore.
«Sì, be’… lo immaginavo» Miller si asciugò il
volto con il camice. «Dottore cosa ne è della mia missione? Della guerra?
Abbiamo vinto?»
«Sì, certo… abbiamo vinto. La tua missione ora è
cambiata, devi tornare qui sulla Terra e ci devi portare uno speciale
trasmettitore costruito su Bb. Ci sei capitato a pennello, Miller, stavamo
proprio cercando un pilota esperto per un viaggio tra sistemi; vedi di non
metterci quarant’anni di nuovo però.» Il dottore si mise a ridere e anche
Miller scoppiò in una risata liberatoria.
«Certo dottore, non vedo l’ora di tornare a casa.»
«Molto bene, per ogni dubbio parla con Tucramix.»
«Va bene, dottore, a presto.»
«A presto, Miller.»
Miller si tolse la cuffia e la porse a Tucramix.
«Se vuoi tienila, così ti senti più sicuro ed
eviti nuovi attacchi di panico» gli fece un occhiolino.
«Va bene, grazie. Andiamo a togliere questo camice
puzzolente? Non ne posso più!» si risistemò la cuffia nell’orecchio.
Tucramix sorrise.
«Certo, andiamo.»
I due uscirono dalla stanza e la marcia lungo i
corridoi riprese.
«Quella Margaret… dev’essere stata una persona
importante per te» osservò Tucramix.
«Sì, le avevo promesso che l’avrei sposata una
volta finita la missione, ma ormai non ha più importanza…»
«Parlami di lei, so che era coinvolta nella tua
missione.»
«Lei è un ingegnere spaziale, è piuttosto abile.
L’ho coinvolta io nel progetto, ha aiutato Doc a creare la capsula del
criosonno, è una donna in gamba. Non è bellissima, il viso è piuttosto duro,
molti uomini si sentono in soggezione con lei… ha dei lunghi riccioli neri che
profumano di shampoo alla vaniglia, ricordo che adoravo annusarli mentre
dormiva… ma ormai ha sposato un altro, avrà anche dei figli… credo…» Miller si
rabbuiò.
«Mi dispiace.» Disse Tucramix, la loro camminata
continuò in silenzio.
“Questo posto sembra un labirinto, come fa ad
orientarsi?”
«Questo posto è deserto…» commentò Miller.
«Siamo in un ospedale militare, in piena notte
poi, quante persone nei corridoi ti aspetti di trovare?»
«Qualche guardia, almeno…»
«Le guardie sono all’ingresso, qua la maggior
parte dei pazienti è legata al letto. Considerati fortunato nell’avere me,
molti miei colleghi non ti avrebbero dato un’altra occasione.»
Fecero un paio di svolte in quei corridoi tutti
uguali, l’ambiente era diventato molto caldo, tanto che Miller stava iniziando
a considerare l’idea di rimanere col camice. “Peggio di una sauna.”
«Tucramix, la mia navicella dov’è?»
«Non c’è più, è stata analizzata e smantellata.»
«E come torno indietro?»
«Con una nostra, non temere. Eccoci, siamo
arrivati.»
Tucramix si fermò davanti ad una porta d’acciaio
uguale a tutte le altre, vi appoggiò il palmo, si spalancò: la stanza era un
qualunque spogliatoio d’ospedale, grande abbastanza per ospitare una ventina di
persone, con armadietti e panchine in legno lungo le pareti. Tucramix aprì un
armadietto ed estrasse una camicia bianca, dei pantaloni di tela e delle scarpe
da ginnastica.
«Prendi, sono di un mio collega, può benissimo
tornare a casa con gli abiti da lavoro; dovrebbero essere della tua taglia.»
«Non avete invece…» si indico le parti intime.
«Temo di no, accontentati, te ne farò avere un
paio.»
«Perfetto.»
Prese gli indumenti dalle mani del dottore e si
cambiò, le scarpe senza i calzini erano un po’ larghe, ma erano sempre meglio
che le ciabatte dell’ospedale.
«Ora è meglio che torni a riposare, hai avuto fin
troppe emozioni.»
«Già…» allargò le braccia, per vedere se la maglia
gli stringeva. «Perfetta! Tucramix, puoi farmi un favore?»
«Dipende, dimmi.»
«Mi dici che giorno è oggi?»
«Qui o sulla Terra?»
John rise. «Giusto, mi ero dimenticato di essere
su un altro pianeta. Sulla Terra.»
«Il quattro Settembre duemilaventisei.»
«Forse sono in tempo…»
«Per cosa?»
«Per fare gli auguri a Margaret, domani è il suo
compleanno.»
5 Settembre
2026
Miller si svegliò. Il primo pensiero andò a
Margaret, doveva andare a farle gli auguri.
La luce del mattino filtrava dalle imposte, le
aprì, godendosi il calore dei due soli e la vista della città, non c’erano
strade, nessuno camminava tra i giganteschi edifici a cono. Sembrava un luogo
deserto.
Ci mise qualche secondo a realizzare ciò che aveva
appena visto.
“Porca puttana.”
La porta dietro di lui si aprì: entrò Tucramix.
«Bene, vedo che sei tornato in forma.»
«Sì mi sento molto meglio, anche se ho una fame da
lupi.» Cercò di rimanere normale e tranquillo. “Che cazzo mi nascondi, figlio
di troia?”
«Tra un paio d’ore porteranno il pranzo.»
«Per quando è prevista la mia partenza?»
«Ancora qualche giorno, abbiamo un piccolo
problema col dispositivo di trasmissione.»
«Che bei soli ci sono oggi» commentò Miller.
«Sì, è una splendida giornata.»
“Fregato” Miller sorrise dentro di sé, il dottore
si era fregato con le proprie mani.
«Volevo andare nel centro di comunicazione per
Margar…» Tucramix si avvicinò, la sua testa iniziò a gonfiarsi, le braccia si
allungarono, la pelle perse colore, fino a diventare pressoché trasparente,
tanto da poter vedere i muscoli sotto. Miller arretrò. Si schiacciò contro la
finestra, si sentiva privato di ogni calore, aveva solo una paura tremenda,
fredda come il ghiaccio.
Ciò che una volta era il dottore aprì la bocca,
scoprendo delle zanne lunghe quanto il pollice di un uomo.
«Cosa c’è, Miller? Ti senti male? Tremi come una
foglia.»
Miller sbatté gli occhi, il mostro davanti a lui
scomparve, lasciando posto al dottore.
“Che cazzo?”
Si lasciò cadere a terra, Tucramix corse ad
aiutarlo.
«No, no» lo allontanò con un gesto della mano.
«Sto bene. Ho solo avuto un capogiro.»
Il dottore lo guardò accigliato.
«Davvero. Sto bene» ma il dottore non sembrava
convinto.
«Scusami, devo andare.» Senza aggiungere altro,
Tucramix si precipitò fuori dalla stanza.
Miller si portò la mano all’orecchio: «Doc, mi
sente? Dottor Dannel?»
Nessuna risposta.
“Devo seguirlo, qua sta succedendo qualcosa di
strano.”
Il dottore aveva dimenticato la porta aperta, fu
facile seguirlo. I corridoi erano pieni di angoli in cui nascondersi.
All’improvviso lo vide fermarsi e annusare l’aria, come se avesse capito di
essere seguito; Miller scivolò dietro un angolo. “Appena in tempo.” Tucramix ricominciò
la sua camminata, fu allora che Miller si accorse di un dettaglio a cui finora
non aveva prestato attenzione: “Come mai i passi del dottore non fanno rumore?
La sua storia non mi convince. Chi è in realtà? E cos’era quella visione? E se
fossi davvero in mano nemica… no, è impossibile, ho parlato col Doc, non
avrebbe mai potuto tradirci… devo andare fino in fondo a questa storia.”
Seguì il dottore fino all’ingresso di una stanza
illuminata con lampade al neon, era la prima stanza a non usare quelle
fastidiose luci azzurrine, doveva essere
un laboratorio. Miller vide scienziati che armeggiavano con strani macchinari
dalle mille spie, leve e pulsanti. Acuni lavoravano davanti a dei recipienti di
liquido fluorescente e gelatinoso, ci inserivano dentro delle uova, uova
enormi, simili a quelle di struzzo, e rimanevano a osservarle galleggiare o
affondare, a seconda del recipiente e della gradazione di colore del liquido.
Tucramix si diresse verso un’altra porta all’interno della stanza e la oltrepassò.
“Merda, con tutta questa gente come faccio a seguirlo?”
Si guardò intorno, cercando un modo per entrare,
vide un camice abbandonato su una sedia.
“È l’unico modo, ho ancora addosso gli abiti del
collega di Tucramix, con un po’ di fortuna nessuno mi noterà.”
Con tutta la freddezza possibile entrò nella
stanza e raccolse il camice dalla sedia, se lo infilò. Presi com’erano dai loro
studi, nessun scienziato lo degnò di uno sguardo. Oltrepassò la porta dov’era
andato Tucramix e si ritrovò in una stanza dove un gruppo di scienziati stava
discutendo intorno al tavolo. Miller si nascose in una rientranza della parete
e si accovacciò, era nel buio, non l’avrebbero visto.
«Qualcosa non ha funzionato, forse abbiamo
sottovalutato le sue capacità percettive» era Tucramix a parlare.
«Pensi che sospetti qualcosa?» chiese una voce
femminile.
«Sicuramente sì, possiamo provare a resettargli la
memoria, ma non sappiamo che effetti potrebbe avere su uno della sua razza. Dobbiamo
muoverci a completare il dispositivo, quanto manca ancora?» Un’altra voce si
unì al dialogo, dal tono, doveva essere qualcuno di molto importante.
“Della mia razza?” La faccenda si faceva più
complicata.
«Le spore si diffondono bene in ogni situazione,
abbiamo solo dei problemi col trasferire la coscienza nel soggetto contaminato.»
«Bene, abbiamo un’occasione d’oro, signori. Non
possiamo fallire. Dedicheremo questa missione ai nostri compagni abbattuti dai
terrestri durante le ricognizioni.»
«Le radiazioni dei soli continuano ad aumentare, secondo
i calcoli ci restano ancora due anni di vita prima che il pianeta venga reso
completamente inabitabile. Le scorte sono quasi esaurite, inoltre, le nostre
tecniche di produzione del cibo si stanno rivelando insufficienti sul lungo
periodo, dovremo tagliare fuori dalla rete un alveare se vogliamo andare avanti»
disse una voce impostata e fredda.
“Lo sapevo. Questi figli di puttana mi vogliono
usare per spargere qualche arma chimica… ma il Doc come può essere coinvolto in
tutto ciò?”
«Un motivo in più per sbrigarsi, se riusciamo a
far spargere le spore non avremo più bisogno di sacrificare un'altra parte
della nostra razza. Riguardate il codice della simulazione, non voglio che un
incidente come quello di oggi si ripeta.»
«Signore, io sono contrario» era di nuovo
Tucramix. «La soluzione non è trasferirci su un pianeta già abitato,
rischieremo davvero una guerra che potrebbe annientarci del tutto. Se mi
lasciaste ancora un po’ di tempo…»
«Ne ho abbastanza delle tue chiacchiere, Tucramix.
Il terrestre è arrivato ora, è un segno. Abbiamo concentrato tutti gli ultimi sforzi
per la creazione delle spore. Esegui gli ordini senza fiatare e lascia che alla
gestione del trasferimento pensiamo noi. O preferisci rimanere qui?» Silenzio.
«La seduta è sciolta.»
Gli uomini e le donne in camice lasciarono la
stanza, Miller trattenne il fiato mentre gli passavano accanto senza accorgersi
di lui.
“Devo trovare un modo di andarmene di qui, devo
riuscire ad avvisare Margaret che stiamo per essere attaccati, di lei mi posso
fidare.” Abbandonò il suo nascondiglio,
aprì leggermente la porta: il laboratorio era vuoto.
“Che culo, saranno in pausa pranzo.”
Uscì dalla stanza e si immerse nel dedalo di
corridoi.
“Il difficile sarà tornare nella mia stanza.” Vagò
per ore e ore, la fame gli artigliava lo stomaco come un’aquila artiglia un
coniglio, aveva le gambe molli e molta sete. “Morirò di stenti… a quest’ora
avranno anche scoperto che sono fuggito, di certo non mi tratteranno con i
guanti… dopotutto morire di stenti non è così male…”
Si appoggiò al muro e si sedette per terra,
stremato. Tucramix gli comparve davanti un attimo dopo, Miller trasalì: non
l’aveva sentito arrivare. Il dottore compariva sempre dal nulla, come un
fantasma.
«Tucramix, per fortuna sei qui! Ero venuto a cercarti
ma mi sono perso…» si sforzò di sorridere.
Il dottore rimase in silenzio, la pupilla dal
centro dei suoi occhi si dilatò fino a riempire tutto il bulbo.
«Stai male?» chiese Miller.
Conversero su di lui da ogni corridoio, dottori,
infermiere, scienziati, tutti con gli occhi completamente neri. Miller iniziò a
tremare convulsamente, gli sembrò che le pareti si stringessero intorno a lui. Attacco
di panico. Si alzò di scatto e cercò di scappare via da quell’orda di mostri,
ma fu bloccato da mani implacabili, dalla morsa di ferro, nel giro di pochi
secondi era immobilizzato a terra.
“Merda. Sono fottuto.”
«Tucramix, è nell’area del laboratorio! Se ti
avesse seguito?»
«Anche se fosse non capisce la nostr… No!»
Delle dita gelide gli scavarono nell’orecchio e
gli tolsero il ricetrasmettitore.
Le parole dei medici divennero semplici suoni.
Vuoti. Privi di significato.
Tucramix disse qualcosa, John fu trascinato in una
stanza, non seppe riconoscere se era la stessa in cui era stato prima. Provò a
liberarsi, ma la presa dei mostri era ferrea, gridò aiuto, ma nessuno venne in
suo soccorso. Gli istanti si seguivano confusi, grugnì di dolore mentre sentiva
gli aghi venire reimpiantati in testa. “Non sono nemmeno riuscito a farle gli
auguri…” Pochi attimi, e fu il buio.
14 Novembre
1969
«Miller, Miller sveglia!»
Qualcuno lo scosse per la spalla, aprì lentamente
gli occhi. Aveva un gran mal di testa.
Ci mise un attimo a capire che chi aveva davanti
era Margaret.
«Margaret! Tu, io… la missione?»
«Finalmente ti sei svegliato! Mi hai fatta
preoccupare, la missione è annullata! Apollo 12 è stato colpito da un missile
russo prima di lasciare l’atmosfera, è un miracolo che tu sia ancora vivo. Non
ricordi niente?» Margaret gli sorrise; Miller, nel profondo, sentiva che qualcosa
non andava, ma non riuscì a capire cosa fosse.
«Ma… Bb… Doc?»
«È tutto passato, Miller… hai delirato per tutto
il tempo dopo l’operazione, ma è andata bene» gli fece una carezza, aveva la
mano congelata. Miller la prese fra le sue.
«Ti senti bene, Margaret? Sei gelida.»
«Ero solo preoccupata.»
“Possibile che la partenza sia stata un sogno?”
«Miller, abbiamo una nuova missione per te, so di
chiederti molto, ma dopo l’attacco ci sono rimasti pochi piloti»
«Ma in che anno siamo?»
«Millenovecentosessantanove» lo guardò come si
guarda un folle.
«Temo che l’incidente mi abbia scombussolato un
po’.»
«Domani partirai, la missione è semplice, il
computer di bordo è già programmato per portarti nel luogo stabilito. Vedi
questo?» tirò fuori dalla schiena un barattolo metallico, dal fondo appuntito.
«Devi piantarlo per terra e aprirlo, così» gli fece vedere il punto esatto dove
si trovava una piccola leva da tirare per far aprire il barattolo, «Dentro ci
saranno delle spore geneticamente modificate, uccideremo tutti i rossi, ce la
pagheranno per quello che hanno fatto ad Apollo 12.»
Miller ebbe un attimo di esitazione, un pensiero
gli attraversò la mente, troppo rapido perché riuscisse a coglierlo, l’istinto
gli diceva che c’era qualcosa di pericoloso. Ma quella era la sua Margaret, non
gli avrebbe mai mentito.
«Va bene»
«Bravo, amore mio.» Si chinò a baciarlo sulla
bocca, le sue labbra erano gelide, come quelle di un morto. Si staccò
leggermente dal bacio. «Ora dormi, amore mio. Non vogliamo correre rischi, ti
sveglierai solo quando sarà il momento.»
“Margaret non mi ha mai chiamato amore mio!”
«Chi s…» scoprì di avere braccia e gambe legate.
Margaret gli diede un nuovo, gelido, bacio. Gli sembrò che attraverso quel
bacio lei gli stesse portando via tutta la forza, provò a resistere, ma fu
inutile.
«Dormi, amore mio.»
15 Novembre
1969
La volta celeste era più luminosa che mai,
nell’aria c’era quel profumo tipico dei boschi, di pino, di resina. Aveva un
vuoto di memoria, gli ultimi giorni della sua vita gli parevano così confusi…
tante immagini… ma non riusciva a focalizzarne nessuna.
Dietro di lui, la sua navicella, la Columb 1, illuminava
la fitta vegetazione poco più avanti; aveva lasciato un piccolo cratere nel
punto d’atterraggio. Si addentrò nel bosco, in mano aveva il barattolo
metallico che Margaret gli aveva spiegato che conteneva una potente arma
chimica, doveva metterlo in un punto in cui i rossi non avrebbero potuto
trovarlo. Doveva fare in fretta, sicuramente l’avevano intercettato con i radar
e presto sarebbero arrivati.
Dei flash: il razzo che lo avrebbe dovuto portare
in orbita colpito, lui che effettua un atterraggio di emergenza, Margaret.
Com’era arrivato nel bosco? Perché ci era arrivato
con la navicella? Improvvisamente si fermò, le domande gli ronzavano in testa, Miller
sapeva che la risposta era lì, davanti ai suoi occhi. Ma c’era qualcosa che
annebbiava la sua mente quando tentava di accedere a quel ricordo, si fece
venire il mal di testa, cercando di dare un senso a tutto.
«Siamo stati attaccati duramente, è ora di
ripagare il nemico con la stessa moneta» la voce di Margaret gli arrivò dalla
ricetrasmittente nell’orecchio, riportandolo alla realtà.
“È giusto, loro ci hanno attaccati per primi e ora
devono pagare. È come Pearl Harbor.”
«Sono sul luogo indicato. Procedo con il rilascio
delle spore.»
Indossò la mascherina e impiantò il barattolo nel
soffice terreno, poi tirò la piccola leva sul tappo, ci fu uno sbuffo, come
quando si aprono le scatole di caffè sotto vuoto; un leggero fumo giallo iniziò
a disperdersi nell’aria.
«È fatta, Margaret!» nessuno gli rispose. «C’è
qualcuno? Ho rilasciato la spora!»
“Forse è saltato un collegamento” tornò di corsa alla
navicella.
Inserì le coordinate del John F. Kennedy Space Center nel computer di bordo e tirò la
cloche.
“Ce l’ho fatta!”
«Stai per entrare in un’area militare degli Stati
Uniti d’America, identificati, fai dietrofront o verrai abbattuto!» Era una
donna a parlare, il suono non proveniva dall’auricolare, ma direttamente dalla
radio di bordo.
«Qui Columb 1, non sparate, ripeto, non sparate.»
«Mi pigli per il culo?»
«No, signora, perché? Son partito stamattina dalla
base.»
“O almeno credo fosse stamattina.”
«Columb 1 è scomparso quasi venti anni fa… come ti
chiami?» la donna sembrava piangere: la voce era rotta da singhiozzi.
«Sono il maggiore John Miller.»
«Impossibile, è morto.»
Miller scoppiò a ridere. «Signora, le assicuro che
sono io, ho consegnato il pacco ai rossi, sto tornando alla base, lo chieda alla
sovrintendente Margaret Randal»
«Miller, il tuo segnale indica che sei partito
dalla Louisiana… non mi riconosci? Sono io Margaret Randal!»
Dei flash: un mostro bianco, cielo rosso, occhi
neri. Era tutto confuso… si sforzò di ricordare e qualcosa nella sua mente si sbloccò.
«Miller, ci sei? Non sai quanto sono felice di
sapere che sei vivo!»
«Margaret… cosa ho fatto…»
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